biografía        bibliografía





Opere pubblicate in vita:



Lavorare stanca
Firenze, Edizioni di Solaria, 1936, pp. 105
Poesie

Paesi tuoi
Torino, Einaudi, 1941, pp. 148
Racconto

La spiaggia
Roma, Ed. Lettere d'oggi, 1942, pp. 107
Racconto

Feria d’agosto
Torino, Einaudi, 1946, pp. 286
Racconti

Dialoghi con Leucò
Torino, Einaudi, 1947, pp. 218

Il compagno
Torino, Einaudi, 1947, pp. 201
Romanzo

La terra e la morte
Padova, "Tre Venezie", 1947, vol. 21, fasc. 4 - 6
Poesie

Prima che il gallo canti
Torino, Einaudi, 1949, pp. 331
Contenuto: Il carcere; La casa in collina

La bella estate. Tre romanzi
Torino, Einaudi 1949, pp. 348
Contenuto: La bella estate; Il diavolo sulle colline; Tra donne sole

La luna e i falò
Torino, Einaudi, 1950, pp. 179
Romanzo


Opere pubblicate postume:



La letteratura americana e altri saggi
Torino, Einaudi, 1951, pp. 369
Pref. di Italo Calvino
Saggi e articoli scritti tra il 1930 e il 1950

Verrà la morte avrà i tuoi occhi
Torino, Einaudi, 1951, pp. 46
Poesie composte tra il 1945 e il 1950

Il mestiere di vivere
Torino, Einaudi, 1952, pp. 407
Diario 1935 - 1950

Notte di festa
Torino, Einaudi, 1953, pp. 223
Racconti composti tra il 1936 e il 1938

Due inediti di Pavese: i problemi critici del cinematografo; di un nuovo tipo d'esteta. (il mio film d'eccezzione)
pubbl. da M. Mila in: "Cinema Nuovo", Milano, 1958, luglio-agosto, n. 134, pp. 14-21

Fuoco grande
Torino, Einaudi, 1959, pp. 105
Romanzo composto nel 1946 in collaborazione con B. Garufi

Il diavolo sulle colline: breve libertà
In "Cinema Nuovo", Milano, 1959, sett-ott. n. 141, pp. 389-400
Due soggetti cinematografici

Racconti
Torino, Einaudi, 1960, pp. 526

Poesie edite e inedite
A cura di Italo Calvino
Torino, Einaudi, 1962, pp. 254

8 poesie inedite e quattro lettere a un'amica (1928 1929)
Con uno scritto di E. Emanuelli
Milano, "All'insegna del pesce d'oro", 1964, pp. 41

Lettere 1924 - 1944
A cura di Italo Calvino
Torino, Einaudi, 1966, pp. 612

Ciau Masino
Torino, Einaudi, 1966, pp. 133

Poesie inedite
A cura di M. Uva
In "Strumenti Critici", Torino, 1970, febbr., n. 11, pp. 61-69

Parco Paesaggistico e Letterario Langhe Monferrato Roero

— Parco Paesaggistico e Letterario



Traduzioni



Sinclair Lewis, "Il nostro signor Wrenn", Bemporad, Firenze, 1930.

Herman Melville, "Moby Dick o la balena", Frassinelli, Torino, 1932.

Sherwood Anderson, "Riso nero", Frassinelli, Torino, 1932.

James Joyce, "Dedalus", Frassinelli, Torino, 1933.

John Dos Passos, "Il 42º parallelo", Mondadori, Milano, 1934.

John Dos Passos, "Un mucchio di quattrini", Mondadori, Milano, 1938.

John Steinbeck, "Uomini e topi", Bompiani, Milano, 1938.

Gertrude Stein, "Autobiografia di Alice Toklas", Einaudi, Torino, 1938.

Daniel Defoe, "Fortune e speranze della famosa Moll Flanders", Torino, Einaudi, 1938.

Charles Dickens, "David Copperfield", Einaudi, Torino, 1939.

Christopher Dawson, "La formazione dell'unità europea dal secolo V al secolo XI", Einaudi, Torino, 1939.

George Macauly Trevelyan, "La rivoluzione inglese del 1688-89", Einaudi, Torino, 1940.

Herman Melville, "Benito Cereno", Einaudi, Torino, 1940.

Geltrude Stein, "Tre esistenze", Einaudi, Torino, 1940.

Christopher Morley, "Il cavallo di Troia", Bompiani, Milano 1941.

William Faulkner, "Il borgo", Mondadori, Milano, 1942.

Robert Henriques, "Capitano Smith", Einaudi, Torino, 1947.


Bibliografia della critica



Pietro Pancrazi, in "Scrittori d'oggi", serie IV, Bari, Laterza, 1946; poi in Ragguagli di Parnaso, vol. III, Milano-Napoli, Ricciardi, 1967.

Antonio Santori, "Quei loro incontri... I dialoghi con Leucò di Cesare Pavese", Ancona 1990.

Italo Calvino, "Pavese in tre libri", in "Agorà", agosto 1946.

Natalino Sapegno, in "Compendio di storia della letteratura italiana", Firenze, La Nuova Italia, 1947.

Gene Pampaloni, "L'ultimo libro di Cesare Pavese", in "Belfagor", n. 5, 1950.

Carlo Bo, in "Inchiesta sul neorealismo", Torino, ERI, 1951.

Giuliano Manacorda, "Pavese poeta, saggista e narratore", in "Società", n. 2, 1952.

Carlo Muscetta, "Per una storia di Pavese e dei suoi racconti", in "Società", n. 4, 1952.

Leone Piccioni, in "Sui contemporanei", Milano, Fabbri, 1953.

Emilio Cecchi, in "Di giorno in giorno", Milano, Garzanti, 1954.

R. Falqui, in "Novecento letterario", serie IV, Firenze, Vallecchi, 1954.

Adriano Seroni, "Introduzione a Pavese", in "Paragone", n. 52, 1954.

L. A. Fiedler, "Introducing Cesare Pavese", in "Kenyon Reviwew", n. 4, 1954.

A. Seroni, "Introduzione a Pavese", in "Paragone", n. 52, 1954.

L. Bergel, "L'estetica di Cesare Pavese", in "Lo spettatore italiano", n. 10, 1955.

A. Pellegrini, "Mito e poesia nell'opera di Pavese", in "Lingua nostra", n. 2, 1956.

F. Riva, "Note su la lingua di Cesare Pavese", in "Belfagor", n. 5, 1955.

U. Mariani, "Cesare Pavese e la "maturità artistica", in "Studi Urbinati", n. 1-2, 1956.

M. L. Premuda, I "Dialoghi con Leucò" e il realismo simbolico di Pavese", in "Annali della Scuola Superiore di Pisa" n. 3-4, 1957.

N. D'Agostino, "Pavese e l'America", in "Studi americani", n. 4.

D. Fernandez, in "Le roman italien et la crise de la conscience moderne", Paris, Grasset, 1958 (trad. it. Il romanzo italiano e la crisi della coscienza moderna, Milano, Lerici, 1960).

Giorgio Barberi Squarotti, "Appunti sulla tecnica poetica di Pavese", in "Questioni", n. 1-2, 1959; poi in Astrazione e realtà, Milano, Rusconi e Paolazzi, 1960.

V. Amoruso, Cecchi, "Vittorini e Pavese e la letteratura americana", in "Studi americani", n. 6, 1960.

I. Calvino, "Pavese: essere e fare", in "L'Europa letteraria", n. 5-6, 1960.

G. Ferrata, "Pavese e il "vizio assurdo", in "L'Europa letteraria", n. 5-6, 1960.

E. N. Girardi, "Il mito di Pavese e altri saggi", Milano, Vita e Pensiero, 1960.

Davide Lajolo, "Il vizio assurdo", Milano, Il Saggiatore, 1960.

F. Mollia, "Cesare Pavese. Saggio su tutte le opere", Padova, Rebellato, 1960.

Carlo Salinari, in "La questione del realismo, Firenze, Parenti, 1960; poi in "Preludio e fine del realismo in Italia", Napoli, Morano, 1967. Luciano Anceschi, in Introduzione a Lirica del Novecento", Firenze, Vallecchi, 1961.

O. Borello, "Pavese e il mito "estetico" dei ritorni" in "Letterature moderne", n. 1, 1961.

J. Hosle, "Cesare Pavese", Berlin, De Guyter, 1961.

Lorenzo Mondo, "Cesare Pavese", Milano, Mursia, 1961.

R. Puletti, "La maturità impossibile", Padova, Rebellato, 1961.

G. Trevisani, "Cesare Pavese", in "Terzo Programma", n. 3, 1962.

Giuseppe De Robertis, in "Altro Novecento", Firenze, Le Monnier, 1962.

Geno Pampaloni, "Cesare Pavese", in "Terzo Programma", n. 3, 1962.

G. Grana, "Cesare Pavese", in AA. VV., I contemporanei, vol. II, Marzorati, Milano, 1963.

Alberto Moravia, in "L'uomo come fine e altri saggi", Bompiani, Milano, 1964.

G. Venturi, "La prima poetica pavesiana: Lavorare stanca", in "La Rassegna della letteratura italiana", n. 1, 1964.

G. Venturi, "Noterella pavesiana", in "La Rassegna della letteratura italiana", n. 1, 1964.

AA. VV., "Terra rossa terra nera", Asti, Presenza Astigiana, 1964.

"Sigma", n. 3-4 contiene i seguenti contributi: L. Mondo, Fra Gozzano e Whitman: "Le origini di Pavese; M. Guglielminetti, "Racconto e canto nella metrica di Pavese"; M. Forti, "Sulla poesia di Pavese"; C. Grassi, "Osservazioni su lingua e dialetto nell'opera di Pavese"; C. Gorlier, Tre riscontri nel mestiere di tradurre; G. L. Beccaria, Il lessico, ovvero la "questione della lingua" in Cesare Pavese; F. Jesi, Cesare Pavese, Il mito e la scienza del mito; E. Corsini, Orfeo senza Euridice: i "Dialoghi con Leucò" e il classicismo di Pavese; S. Pautasso, Il laboratorio di Pavese; G. Bàrberi Squarotti, Pavese o la fuga dalla metafora; R. Paris, Delphes sur les collines; J. Hosle, I miti dell'infanzia. Alberto Asor Rosa, in Scrittori e popolo, Roma, Samonà e Savelli, 1965.

P. De Tommaso, "Ritratto di Cesare Pavese", in "La Rassegna della letteratura italiana", n. 3, 1965; poi in Narratori italiani contemporanei, Roma, Edizioni dell'Ateneo, 1965.

F. Longobardi, "Ancora Pavese", in "Belfagor", n. 6, 1965.

G. Pozzi, in "La poesia italiana del Novecento da Gozzano agli ermetici", Torino, Einaudi, 1965.

R. Sanesi, "Appunti sulla poesia di Pavese", in "Nuova Presenza", n. 18, 1965.

M. Tondo, "Itinerario di Cesare Pavese", Padova, Liviana, 1965.

G. Cesarano, "Riflessioni su Pavese", in "Paragone", n. 194, 1966.

M. David, in "La psicoanalisi nella cultura italiana", Torino, Boringhieri, 1966.

F. Felcini, "Problemi critici dell'arte di Pavese", in "Studium", n. 8-9, 1966.

A. M. Mutterle, "Appunti sulla lingua di Pavese lirico", in AA. VV., "Ricerche sulla lingua poetica contemporanea", Padova, Liviana, 1966.

V. Campanella e G. Macucci, "La poesia del mito nell'opera di Pavese", in "Il Ponte", n. 1, 1967.

G. Guglielmi, in "Letteratura come sistema e come funzione", Torino, Einaudi, 1967.

Armanda Guiducci, "Il mito Pavese", Firenze, Vallecchi, 1967.

C. Varese, in "Occasioni e valori della letteratura contemporanea", Bologna, Cappelli, 1967.

G. Venturi, "Cesare Pavese" in "Belfagor", n. 4, 1967.

F. Angelini Frajese, "Dei ed eroi di Cesare Pavese", in "Problemi", n. 11-12, 1968.

Giorgio Bàrberi Squarotti, in "La narrativa italiana del dopoguerra", Bologna, Cappelli, 1968.

G. P. Biasin, "The Smile of the Gods. A Thematic Study of Cesare Pavese's Works", Ithaca-New York, Cornell Un. Press, 1968.

P. Fontana, "Il noviziato di Pavese e altri saggi", Milano, Vita e Pensiero, 1968.

Furio Jesi, in "Letteratura e mito", Torino, Einaudi, 1968.

A. M. Mutterle, "Lo scacco di Pavese", in "Comunità", n. 153, 1968.

G. Venturi, "Pavese, La Nuova Italia", Firenze, 1969

Armanda Guiducci, "Invito alla lettura di Cesare Pavese", Mursia, Milano, 1972

Marziano Guglielminetti-G. Zaccaria, "Cesare Pavese", Le Monnier, Firenze, 1976

D. Thompson, "Cesare Pavese", Cambridge, 1982

Giuseppe Grasso, "Note esegetiche a Cesare Pavese", in Giornale Italiano di Filologia, N. S. XIV [XXXV], 1-2, 15 novembre 1983, Cadmo Editore

T. Wlassics, "Pavese falso e vero. Vita, poetica, narrativa", Centro studi piemontesi, Torino, 1985

M. N. Muniz, "Introduzione a Pavese", Laterza, Bari, 1985

"Biografia per immagini: la vita, i libri, le carte, i luoghi", a cura di Franco Vaccaneo, Gribaudo, Torino 1989

F. Pappalardo La Rosa, "Cesare Pavese e il mito dell'adolescenza", Edizioni dell'Orso, Alessandria, 1996.

F. De Napoli, "Del mito, del simbolo e d'altro. Cesare Pavese e il suo tempo", Cassino, Garigliano, 2000

R. Gigliucci, "Cesare Pavese", Milano, Bruno Mondadori, 2001

Fabrizio Bandini, "Solitudine e malattia in Cesare Pavese", Midgard Editrice, Perugia, 2004

Lorenzo Mondo, "Quell'antico ragazzo - Vita di Cesare Pavese", Milano, Rizzoli, 2006.





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Vida y obras de Cesare Pavese:



"Uno no se mata por el amor de una mujer. Uno se mata porque un amor, cualquier amor, nos revela nuestra desnudez, nuestra miseria, nuestro desamparo, la nada."

Cesare Pavese fue un escritor italiano, uno de los más importantes del Siglo XX. Nacido en una pequeña localidad del Piamonte, Santo Stefano Belbo (Cuneo) el 9 de septiembre de 1908 y fallecido en Turín el 27 de agosto de 1950). Durante toda su vida tratará de vencer la soledad interior, que veía como una condena y una vocación.

Su obra está llena de los paisajes de su infancia, pero también palpita en toda ella Turín, la ciudad en la que creció, en la que se licenció en Literatura, en la que fue detenido por su complicidad con los comunistas, en la que trabajó durante largos años en la editorial Einaudi (junto a Natalia Ginzburg e Italo Calvino), en la que se quitó la vida. Los soportales de la zona antigua, los barrios obreros, los cafés y restaurantes, la vida de sus calles, el río Po, y las colinas próximas a la ciudad, a la que tantas veces se dirigen sus personajes en busca de consuelo, de diversión, de compañía, de paz interior, de júbilo.

En 1914 muere su padre, lo que le causa un primer trauma. Su madre, de hecho, compensará la ausencia del marido educando de modo bastante rígido a su hijo. Pavese cursa estudios secundarios en Turín con Augusto Monti, colaborador de Gobetti, narrador y pedagogo. Es su primer contacto con el mundo de los intelectuales y con personalidades como Leone Ginzburg, Tullio Pinelli, Vittorio Foa (estudioso de los problemas políticos y sociales) y Norberto Bobbio.

Cursó estudios de filología inglesa en la universidad de Turín. Es en su época universitaria cuando Pavese se interesa por la literatura norteamericana; en esos años, alterna su trabajo de traductor con la enseñanza del inglés. En 1932 se licenció en letras con una tesis sobre el poeta norteamericano Walt Whitman. Su carácter tímido, los desengaños amorosos y las sucesivas crisis vitales, de orden religioso y político (en un principio vinculado al fascismo, posteriormente fue miembro del partido comunista), lo llevaron hasta un aislamiento que culminó en suicidio.

Fue uno de los fundadores de la editorial Einaudi y por sus escritos antifascistas, publicados en la revista La Cultura, fue detenido en mayo de 1935 y confinado en Brancaleone Calabro.

Durante este exilio publica Trabajar cansa (que había empezado en 1928) y en ese mismo período empieza la composición de El oficio de vivir, diario literario y existencial que seguirá escribiendo hasta el final de su vida.

De vuelta de su confinamiento, descubre que la mujer a la que amaba se ha casado (lo que le ocasiona un segundo trauma); a partir de ese momento, Pavese se angustia, temeroso de que lo ya sucedido se pueda repetir.

En 1936 regresó a Turín. Llamado a filas, se le dispensa por el asma que padece. Desde el 8 de septiembre de 1943 hasta la liberación de Italia se refugia en primer lugar en casa de su hermana, y luego en un colegio de Somascos en Casale Monferrato, sin contacto con los acontecimientos que sacuden Italia, mientras muchos de sus amigos entran en la Resistencia. Narra estas experiencias en La casa en la colina (que escribe entre 1947 y 1948). En esta obra se pone de manifiesto el conflicto entre su elección y la de sus amigos, muchos de los cuales murieron como consecuencia de la opción adoptada.

Al terminar la guerra, sin embargo, y quizás para compensar su anterior elección, Pavese entra en el Partido Comunista Italiano. (PCI). En 1945 publicó "I dialoghi col compagno" en el diario "L'Unità".

Perteneció a la generación neorrealista italiana y contribuyó a la difusión de los novelistas norteamericanos tanto a través de sus traducciones de Melville, Dos Passos, Faulkner, Steinbeck, Stein y Joyce, como por su colaboración en la antología Americana (1942), junto con E. Vittorini. Asimismo, sistematizó sus conocimientos sobre literatura estadounidense en La literatura americana y otros ensayos (1951).

Inició su obra de escritor con la publicación del poemario Trabajar cansa (1936), con el que se opuso a la poesía hermética italiana. Poesía narrativa y poesía-imagen coexisten en Trabajar cansa, obra en la que ya encontramos las constantes de Pavese: soledad como condena existencial, incapacidad de diálogo, añoranza de la mujer, el campo como mito desde el que se originan las primeras impresiones y la identidad del individuo, la figura del exiliado que vuelve al lugar de origen, buscando su propia infancia, persiguiendo la propia identidad.

Su obra narrativa, de un lúcido realismo, plasma el mundo rural y la vida social contemporánea (Allá en tu aldea, 1941; La playa, 1942; La cárcel, 1938-1939, publicado en 1949; Antes de que el gallo cante, 1949; El bello verano, 1949; Entre mujeres solas, 1949; El diablo en las colinas, 1949; La luna y las fogatas, 1950).

El desengaño amoroso que sufre tras la ruptura de su relación sentimental con la actriz norteamericana Constance Dowling - a la que dedica sus últimos versos Vendrá la muerte y tendrá tus ojos- y su malestar existencial lo llevan al suicidio el 27 de agosto de 1950, en Turín, ingiriendo doce sobres de somníferos en una habitación de hotel después de haber recibido un premio literario por su libro El bello verano. En el año 1957, se creó un premio literario con su nombre para honrar su memoria.

Algunas de las mejores y más conmovedoras páginas de Pavese se encuentran en su diario, que fue publicado póstumamente, en 1952, bajo el título El oficio de vivir, un extraordinario testimonio sobre la vida y el oficio de un escritor, en el que Pavese sostiene la necesidad de que las palabras se adhieran a las cosas y rehuye la musicalidad por sí misma. Estos primeros cánones poéticos serán posteriormente modificados para evitar que la poesía narrativa se convierta en un boceto naturalista. Pavese teoriza sobre una poesía que se resuelve en imágenes.

Su gran amigo el escritor Davide Lajolo describió en un libro titulado El vicio absurdo el malestar existencial que envolvió siempre su vida.

La literatura de Cesare Pavese está inundada de reflexiones sobre la soledad, pero también sobre la familia, el sexo, el amor y, sobre todo, la muerte. Su diario es reflejo del lado trágico de la vida que siempre le persiguió. Definió el suicidio como "un homicidio tímido", y eso no le impidió acabar con su vida a los 41 años.

El episodio que con más fuerza marca la trayectoria de Pavese es su suicidio. Alquiló una habitación en el hotel Roma de Turín y se tomó el contenido de unos veinte sobres de los somníferos que utilizaba para combatir el insomnio. El 27 de agosto de 1950 descubrieron su cuerpo sin vida y una nota en el ejemplar de Diálogos con Leuco que tenía en la mesa de noche: "Perdono a todos y a todos pido perdón. ¿De acuerdo? No chismorreen demasiado".

Cuando definía cómo era su obra, comentaba que su ambición era la de fundir dos actitudes que en principio son opuestas: la de sumergirse en el mundo próximo ("mirada abierta a la realidad inmediata, cotidiana, rugosa") y la de mantener al mismo tiempo un distanciamiento contemplativo y formal ("recato profesional, artesano, humanista"). Así que contaba cosas que pasaban en Turín, pero que siguen ahí, agarrando las entrañas de todos.

Cuando lo detuvieron en 1935 por ayudar a "la mujer de voz ronca", que desempeñaba importantes labores clandestinas en el partido comunista y de la que estaba enamorado, Italia combatía en Abisinia. Pavese encontró en las palabras la mejor manera de levantarse por encima del vacuo nacionalismo de los fascistas. El fracaso amoroso fue la otra corriente que sacudió la vida de un hombre del que han dicho sus amigos que era triste. "Todo el problema de la vida es éste: cómo romper la propia soledad, cómo comunicarse con otros", escribió en su diario. Su respuesta fue su literatura.

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Cesare Pavese (1908-1950)
(Monografie critiche)



Cesare Pavese nasce il 9 settembre 1908 a Santo Stefano Belbo, un paesino delle Langhe in provincia di Cuneo, dove il padre, cancelliere del tribunale di Torino, aveva un podere. Ben presto la famiglia si trasferisce a Torino, anche se le colline del suo paese rimarranno per sempre impresse nella mente dello scrittore e si fonderanno pascolianamente con l’idea mitica dell’infanzia e della nostalgia. Il padre di Cesare muore quasi subito: questo episodio inciderà molto sull’indole del ragazzo, già di per sé scontroso e introverso.

Molti si sono occupati dell’adolescenza di Cesare, di questo ragazzo timido, amante dei libri, della natura e sempre pronto ad isolarsi dagli altri, a nascondersi, a inseguire farfalle e uccelli, a sondare il mistero dei boschi.

Davide Laiolo, suo grande amico, in un libro intitolato Il vizio assurdo tende a evidenziare due elementi fondamentali: la morte del padre e il conseguente irrigidirsi della madre che, con la sua freddezza e il suo riserbo, attuerà un sistema educativo più da padre asciutto e aspro che non da madre affettuosa e dolce. L’altro elemento è la tendenza al «vizio assurdo», la vocazione suicida. Ritroviamo infatti sempre un accenno alla mania suicida in tutte le lettere del periodo liceale, soprattutto quelle dirette all’amico Mario Sturani.

Questo mondo adolescente di Cesare, così difficile, così traboccante di solitudine e di isolamento per Monti sarebbe invece il risultato della introversione tipica della adolescenza, per Fernandez la risultante di traumi infantili (morte del padre e mondo femminile in cui viene allevato, desiderio inconscio di autopunizione). Per altri ancora invece il dramma della impotenza sessuale, indimostrabile forse, ma a momenti rintracciabile in alcune pagine de Il mestiere di vivere.

Qualunque sia l’interpretazione che si vuole dare a questi primi anni, non si può negare che si profila subito in essi la storia di un destino tragico e amaro, evidenziato da un disperato bisogno d’amore, da una ricerca di apertura verso gli altri, verso il mondo, verso le relazioni interpersonali, destino di solitudine, di amarezza, di disperata sconfitta. Una grande dicotomia tra l’attrazione per la solitudine e il bisogno di non essere solo.

Dibattuto tra gli estremi di una orgogliosa affermazione di sé e della constatazione di una sua inadattabilità alla vita, Pavese sceglie fin da ragazzo la letteratura «come schermo metaforico della sua condizione esistenziale» (Venturi), in essa cercando la risoluzione dei suoi conflitti interiori.

Studia nell’Istituto Sociale dei Gesuiti e nel Ginnasio moderno, quindi passa al Liceo D’Azeglio, dove avrà come professore un maestro d’umanità, Augusto Monti, al quale molti intellettuali torinesi di quegli anni devono tanto. L’ingresso al liceo D’Azeglio è di somma importanza per la vita di Cesare, il quale tra il 1923 e il 1926 partecipa a quel rinnovamento delle coscienze che non solo esercitava l’azione educatrice di Monti ma che trovava concretezza e palpabilità nell’opera di Gramsci e Gobetti. Dapprima Pavese è assai riluttante a impegnarsi attivamente nella lotta politica, verso la quale egli non nutre grande interesse, anche perché tende a fondere sempre il motivo politico con quello più propriamente letterario. È però attratto dai giovani che seguono Monti: Leone Ginzburg, Norberto Bobbio, Tullio Pinelli, Massimo Mila, i quali non aderiscono né al movimento di Strapaese (legato al fascismo) né a quello di Stracittà (movimento apparentemente progressivo ma in realtà anch’esso trincerato dietro lo scudo fascista), in opposizione ai quali essi coniano la sigla Strabarriera.

Cesare trova gusto nelle discussioni, si trova a suo agio nelle trattorie, assieme agli operai, ai venditori ambulanti, alla gente qualunque: molti di questi saranno un giorno protagonisti dei suoi romanzi. Ha la sensazione di essere giovane, rinato e, negli ultimi anni dell’Università, nella sua vita privata entra colei che sarà al centro della sua anima, «la donna dalla voce rauca». Cesare appare addirittura trasformato: per tutto il tempo durante il quale ha la sensazione che questa donna gli sia vicina, diventa cordiale, umano, affettuoso, aperto al colloquio con gli altri. Quella donna gli riporta l’incanto dell’infanzia, il suo viso, quando non la sente sua non è più il mattino chiaro, è una nube, ma una nube dolcissima e, anche se vive altrove, gli riflette sempre «lo sfondo antico». Quelle colline e quel cielo tornano ancora umanissimi come il «dolce incavo della sua bocca».

Nel 1930 (a soli ventidue anni) si laurea con una tesi Sulla interpretazione della poesia di Walt Whitman e comincia a lavorare alla rivista «La cultura», insegnando in scuole serali e private, dedicandosi alla traduzione della letteratura inglese e americana nella quale acquisisce ben presto fama e notorietà. Gli anni del liceo e poi dell’università portano nella vita del ragazzo solitario il suggello dell’amicizia: tutto contribuisce ad umanizzare le sue rabbiose letture: le dispute letterarie, l’eccitante accostamento al mondo vietato della politica, i caffè concerto, i miti sfolgoranti dell’industria cinematografica, le marce in collina, le vogate sul Po che rinvigoriscono il suo corpo, precocemente squassato dall’asma. In confronto al paese, la città si presenta come una grande fiera, come una festa continua. Di giorno la vita è piena, i negozi sono tanti, i tram sferragliano e dovunque si ascolta musica.

Nel 1931 muore la madre, pochi mesi dopo la laurea: per l’ammirazione mai manifestata e per il rimorso di non aver mai saputo dimostrare il suo affetto e la sua tenerezza per lei, la sua morte segna un altro solco amaro nella vita dello scrittore. Rimasto solo, si trasferisce nell’abitazione della sorella Maria, presso la quale resterà fino alla morte.

Intanto sempre nel 1931 viene stampata a Firenze la sua prima traduzione: Il nostro signor Wrenn di Sinclair Lewis. Il mestiere di traduttore ha tale importanza non solo nella vita di Pavese ma per tutta la cultura, da aprire uno spiraglio a un periodo nuovo nella narrativa italiana. Con le sue traduzioni, egli dà la misura di quanto sia grande la sua ansia di libertà, la sua esigenza di rompere lo schema delle retoriche nazionalistiche e aprire a sé e agli altri nuovi orizzonti culturali, capaci di smuovere quelle incrostazioni vecchie e nuove che avevano fatto ammalare la società italiana. Egli vuole presentare coscientemente «il gigantesco teatro dove, con maggior franchezza che altrove, veniva recitato il dramma di tutti». Il fascismo negava ogni iniziativa alle grandi masse, condannava e impediva gli scioperi, mentre in quei romanzi americani si leggeva la possibilità di creare nuovi rapporti sociali.

Contro la monotonia della prosa d’arte e diversamente dall’Ermetismo, Pavese dimostrava come il contatto con le grandi masse americane attraverso quei romanzi vivificasse anche il linguaggio, con l’inserimento della parlata popolare, sì da renderlo congeniale con i nuovi contenuti. Di tutti, quello che diventa la coscienza del suo destino è Peter Mathiessen (lo scrittore della Natura: Il leopardo delle nevi, L’albero dove è nato l’uomo, Il silenzio africano NdR.), per la comune ricerca del linguaggio, per il senso tragico e per il considerare inutile la vita, nonché per l’estremo gesto suicida.

Nel 1933 sorge la casa editrice Einaudi al cui progetto Pavese partecipa con entusiasmo per l’amicizia che lo lega a Giulio Einaudi: questi sono gli anni dei suoi momenti migliori con «la donna dalla voce rauca», una intellettuale laureata in matematica e fortemente impegnata nella lotta antifascista: Cesare accetta di far giungere al proprio domicilio lettere fortemente compromettenti sul piano politico: scoperto, non fa il nome della donna e il 15 maggio 1935 viene condannato per sospetto antifascismo a tre anni di confino da scontare a Brancaleone Calabro. Tre anni che si ridurranno poi a meno di uno, per richiesta di grazia: torna infatti dal confino nel marzo del 1936, ma questo ritorno coincide con un’amara delusione: l’abbandono della donna e il matrimonio di lei con un altro. L’esperienza (che sarà il soggetto del suo primo romanzo, Il carcere), e la delusione giocano insieme per farlo sprofondare in una crisi grave e profonda, che per anni lo terrà avvinto alla tentazione dolorosa e sempre presente del suicidio.

Si richiude in un isolamento forse peggiore di quello adolescenziale ma ancora una volta a salvarlo è la letteratura, il suo «valere alla penna».

Nel 1936 compare a Firenze, per le edizioni Solaria, la prima raccolta di poesie Lavorare stanca che comprendeva le poesie scritte dal 1931 al 1935 e che fu letta da pochi. Una seconda edizione, comprendente anche le poesie scritte fino al 1940, fu pubblicata nel 1942 da Einaudi. In quegli anni scrive ancora racconti, romanzi brevi, saggi. Esce nel 1941 la sua prima opera narrativa, Paesi tuoi, «ambiantata in quelle colline e vigne delle Langhe, che accanto alla Torino dei viali e dei caffè, dei fiumi e delle osterie, costituisce l'altro grande luogo mitico della poetica pavesiana» (Emilio Cecchi). Sembra aver riacquistato la fiducia in se stesso e nella vita e, soprattutto frequentando gli intellettuali antifascisti della sua città, pare aver maturato anche una coscienza politica. Tuttavia non partecipa né alla guerra né alla Resistenza: chiamato alle armi, viene dimesso perché malato di asma.

Destinato a Roma per aprire una sede della Einaudi, si trova isolato e in lui prevale la ripugnanza fisica per la violenza, per gli orrori che la guerra comporta e si rifugia nel Monferrato presso la sorella, dove vivrà per due anni «recluso tra le colline» con un accenno di crisi religiosa e soprattutto con la certezza di essere diverso, di non sapere partecipare alla vita, di non riuscire aessere attivo e presente, di non essere capace di avere ideali concreti per vivere (motivi che ritorneranno nel Corrado de La casa in collina e che in un certo senso riportano alla inettitudine sveviana e quindi al Decadentismo).

Dopo la fine della guerra si iscrive al Partito comunista ma anche questa scelta, come la crisi religiosa, altro non era se non un ennesimo equivoco, una nuova maniera di prendere in giro se stesso, di illudersi di possedere quella capacità di aderenza alle cose, alle scelte, all’impegno che invece gli mancavano. La sua probabilmente era una sorta di tentativo di riparazione, di voglia di mettere a posto la coscienza e del resto ancora il suo impegno è sempre letterario: scrive articoli e saggi di ispirazione etico-civile, riprende il suo lavoro editoriale, riorganizzando la casa editrice Einaudi, si interessa di mitologia e di etnologia, elaborando la sua teoria sul mito, concretizzata nei Dialoghi con Leucò.

Recatosi a Roma per lavoro (dove soggiornerà per un periodo stabilmente, a parte qualche periodica evasione nelle Langhe) conosce una giovane attrice: Constance Dowling. È di nuovo l’amore. La giovane con le sue efelidi rosse e forse in qualche modo con una sincera ammirazione per un uomo ormai famoso e noto, ricco di intelletto e capace di una forte emotività, accende ancora una volta Cesare, ma poi va via, lo abbandona. Costance torna in America e Pavese scrive Verrà la morte e avrà i tuoi occhi

A questo secondo abbandono, alle crisi politiche e religiose che riprendono a sconvolgerlo, allo sgomento e all’angoscia che lo assalgono nonostante i successi letterari (nel 1938 Il compagno vince il premio Salento; nel 1949 La bella estate ottiene il premio Strega; pubblica La luna e i falò, considerato il suo miglior racconto) alla nuova ondata di solitudine e di senso di vuoto non riesce più a reagire. Logorato, stanco, ma in fondo perfettamente lucido, si toglie la vita in una camera dell' albergo Roma di Torino ingoiando una forte dose di barbiturici. È il 27 agosto del 1950. Solo un'annotazione, sulla prima pagina dei Dialoghi con Leucò, sul comodino della stanza «Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi.».

Aveva solo 42 anni.

A cura della Redazione Virtuale
Milano, 12 luglio 2001


— italialibri



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Cesare Pavese, Oeuvres
Retour sur la figure de l’écrivain suicidé, à la faveur de la publication de ses oeuvres complètes.



Les écrivains devenus mythiques furent rarement heureux. En 1950, l’année qui lui vaut le prix Strega pour La Lune et les Feux et où paraît son journal, Le Métier de vivre, Cesare Pavese se suicide. Un geste qui le fait accéder au domaine incertain où retrouver, parmi d’autres figures érigées en victimes du destin, Giacomo Leopardi ou Federico García Lorca. Ce que le Journal de Kafka, que l’on découvre alors, impose à la culture germanique, celui de Pavese l’apporte à la culture italienne. Non sans analogie : quelque chose comme l’inespérance et le déchirement de soi, plus encore que du « moi » de la première partie du siècle.

Les oeuvres posthumes furent publiées sous l’égide d’Italo Calvino. Chez Einaudi, où Pavese fut un remarquable éditeur et traducteur, notamment de Whitman, de Dos Passos et de Faulkner. Un culte pavésien s’établit en Italie le temps des deux décennies du néoréalisme dominant. Le temps passa. Et il estompa l’aura de l’écrivain et de ses livres, à l’exception du Métier de vivre. Parce que leur lecture en devint biaisée et fit oublier le poète de Travailler fatigue, le romancier du Bel été. Une remarque de Martin Rueff, éditeur de ce volume « Quarto », paraît pertinente : le suicide a brouillé, de manière « néfaste », l’analyse de l’oeuvre, comme celle de Pasolini le fut par son assassinat.

Si les personnages suicidaires ne manquent pas dans ses fictions, la mort, pour Pavese, « tel un vice absurde », s’affirme comme une obsession : La mort viendra et elle aura tes yeux, titre de son ultime livre de poèmes. Il notait, dans le bel imaginaire panthéiste des Dialogues avec Leucò : « Personne ne se tue. La mort est un destin. » Ou, dans le Journal, en 1938 : « Une bonne raison de se tuer ne manque jamais à personne. »

Remonter le cours du temps dans les livres de Pavese ne permet jamais de s’éloigner du finale que les dieux nous ont abandonné, nous épargnant le châtiment de l’immortalité. Vivre fatigue ; si une fêlure s’est dessinée, le « destin » s’y glissera le jour venu. Cette fêlure, le quotidien la dissimule, mais l’oeuvre y plonge ses racines. Une faille profonde est née tôt, elle sépare Pavese le Piémontais de sa terre ; il vit en exilé des collines de Cuneo, paradis de son adolescence. L’auteur des nouvelles de La Lune et les Feux s’en est-il jamais guéri ? Il écrit dans La Plage, en 1942, récit qui ouvre le recueil précité : « Rien n’est plus inhabitable qu’un lieu où l’on a été heureux. » Ce bourreau de travail se fait d’abord bourreau de l’enfant prodigue qu’il n’a fait que rêver d’être. L’homme est un solitaire aux amitiés rares, aux deux acceptions du terme, un misogyne amateur de femmes. Exilé dans sa déraison de vivre, il en assume le métier. Ainsi délaisse-t-il la poésie lorsque la parfaite maîtrise de la forme ne « creuse » plus le matériau.

Il se voyait, en 1927, « incapable, timide, paresseux, incertain, faible, à moitié fou ». « Jamais je ne pourrai m’arrêter sur une position stable, sur ce qu’on appelle la réussite dans la vie. » On croit lire Kafka ! Portrait d’autodétestation comme on peut en écrire à 20 ans ? Quelque quinze ans plus tard, une amie le décrit en « martyr vivant d’exigences contradictoires ». Dont le doute politique, les liens avec le PCI, la naissance de l’absurde, la finalité de la création… Au-delà de la vivisection du Journal, l’échec sexuel ou sentimental, le déracinement et le parfum païen des dieux perdus des collines de Cuneo animent l’oeuvre entière.

Claude Michel Cluny

— Magazine Litteraire




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Of Sea and Words and Toil
The Poetry of Cesare Pavese



ON AUGUST 27, 1950, two weeks short of his forty-second birthday, Cesare Pavese took an overdose of sleeping pills in a hotel room in his native Turin. A suicide note, inscribed on the first page of his 1947 Dialogues with Leucò, read: "I forgive everyone and ask everyone's forgiveness. OK? Don't gossip too much."

The gossiping began straight away, with newspapers querying the identity of various young ladies that accompanied the funeral procession, and has continued more or less unabated ever since. The formidable myth-building of the 1960s and 1970s gave way to various attempts at deconstructions and reconstructions in the 1990s. Myth and reality have been intermeshed to such a degree, however, that it might be best to take a stoic approach and ponder the irony that such a situation after all, does reflect Pavese - a life torn between the need to reach out to timeless gods and everyday individuals, between solitude and company.

A suicide, as Tim Lott pointed out in his meditation in the Guardian on some of the reactions to the mass murderer Harold Shipman's recent demise, shakes the foundations of our belief system, and we seek to redress our own balance by labelling the act as cowardly, wicked, tragic, or by some other tag. "Our perception of the suicide almost never fits with the reality, but this will not stop us. Like the suicide, the deepest part of ourselves is angry and afraid, and thus we always consider the assertion of our selves, more important than the facts."

Where poets are concerned, the suicide of a Sylvia Plath, Paul Celan or Cesare Pavese influences our reading of the words left behind. We search the poems as if they are cryptic clues to some hidden meaning that might explain the desperate act. But such a reading merely causes us to slide into gossip.

On the tenth anniversary of Pavese's death, Italo Calvino (in Pavese: Essere e Fare - Pavese: Doing and Being) wrote: "Too much has been said about Pavese in the light of his extreme act and not enough in the light of his battle won day after day against his own self-destructive drive." Calvino offers a rare portrait of a man whose laconic and unsociable traits were not a defensive shield against pain but "an internal iron shell able to contain the pain like the fire in a furnace". It is a portrait of a nervous man in the grip of a febrile creative activity.

Disregarding, indeed destroying, much of his teenage writings, Pavese set 1930 as the year he began his literary career. His output over the next twenty years was to fill sixteen volumes, spanning poetry, fiction, essays and diaries. To these should be added sixteen volumes of translations from English (which he taught himself as a teenager) beginning in 1931 with Sinclair Lewis's Our Mr Wren, followed by Melville's Moby Dick in 1932, and going on to James Joyce, Gertrude Stein, John Dos Passos, William Faulkner, John Steinbeck and others.

By 1932, when Pavese presented his thesis on Walt Whitman at the University of Turin, he had already composed Ciau Masino, an unfinished novel composed of short prose vignettes and poems that intertwine the lives of Masino, the intellectual drawn to America and the blues, and Masin, a labourer caught in a downward spiral, a no-hoper. Published posthumously in 1968, Ciau Masino contained the seeds of many of his later works as well as the poems that open his first collection of verse.

Many of his contemporaries, Montale and Calvino amongst them, felt that Pavese gave his best to narrative. The fact that, along with Moravia, he was the most frequently translated Italian novelist in the 1950s and 1960s might reflect a similar judgment on the part of English and American publishers. But poetry was central to his own conception as a writer. In a 1945 essay on reading and about his work, Pavese wrote "the most successful work, one that alone can stand as representing the character of my art is today still Lavorare Stanca" and goes on to compare several of his novels, which he saw as poetry in prose, as being simply a "particularly enjoyed and protracted" page drawn from the book of poems.

Pavese published two editions of Lavorare Stanca (Work's Tiring), the first in 1936 and the second in 1943. The second edition was revised and expanded with poems written between 1936 and 1940 as well as poems that had been censored from the first edition. Except for "Earth and Death", a sequence of nine poems written in 1945 and published in a journal in 1947, the remainder of Pavese's poetry was only published posthumously.

First released in the USA by Copper Canyon Press and published with a revised introduction in the UK by Carcanet, Geoffrey Brock's translation is the first of the complete poems of Pavese, and is by far superior and more accurate than the select translations that were published in 1969 and 1976. Indeed, it is odd that it should have taken so long for a complete poems to appear.[...]

— obfuchai




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CESARE PAVESE



Poco a poco se ha impuesto la imagen de un Cesare Pavese doliente, atormentado, un poco melodramático. Alejandro Zambra vuelve a la vida y obra de este autor para desmontar ese mito y revalorar sus libros, todo en el centenario de Pavese y en el marco de una FIL de Guadalajara que tiene a Italia como país invitado.



En el poema “La habitación del suicida”, Wisława Szymborska recrea la perplejidad de los amigos ante el suicidio de alguien que solamente deja, a manera de explicación, un sobre vacío apoyado en un vaso. Cesare Pavese, en cambio, escribió durante quince años una larguísima carta de despedida que hasta aquí hemos leído en calidad de obra maestra. En las cuatrocientas páginas de El oficio de vivir, Pavese cultiva la idea del suicidio como si se tratara de una meta o de un requisito o de un sacramento, al punto que, finalmente, se hace difícil moderar la caricatura: no es el enigmático amigo de Wislawa Szymborska o el suicida que en un poema de Borges dice “Lego la nada a nadie”. Por el contrario, Pavese es consciente de su legado: sabe que deja una obra importante, cumplida, sabe que ha escrito alta poesía, sabe que sus novelas soportarán con decoro el paso del tiempo. No tenía motivos para quitarse la vida, pero se encargó de inventarlos, de darles realidad. El oficio de vivir es un registro de teorías y de planes, de diatribas y digresiones, pero sin duda en la lectura prevalece el recuento de pensamientos fúnebres, casi siempre extremos y a veces más bien peregrinos, propios de un joven envejecido que de a poco va convirtiéndose en un viejo adolescente. Tal vez hay que ser como ese joven o como ese viejo para valorar, en plenitud, el diario de Pavese. Tal vez hay que querer suicidarse para leer El oficio de vivir.

Pero no es necesario querer suicidarse para disfrutar de libros perfectos como La luna y las fogatas, La playa, Trabajar cansa o Vendrá la muerte y tendrá tus ojos. La mayor virtud de El oficio de vivir es que da pistas sobre la obra de Pavese: si quitamos las referencias a su vida amorosa quedaría un libro delgado y excelente. Ahora me parece que al diario le sobran muchas páginas: sus impresiones sobre las mujeres, por ejemplo, no se compadecen con la comprensión verdadera o al menos verosímil de lo femenino que uno cree leer en La luna y las fogatas, Entre mujeres solas o en algunos de sus poemas. Por momentos Pavese es solamente ingenioso y más bien vulgar: “Ninguna mujer contrae matrimonio por conveniencia: todas tienen la sagacidad, antes de casarse con un millonario, de enamorarse de él.” Su misoginia es, con frecuencia, rudimentaria: “En la vida, les sucede a todos que se encuentran con una puerca. A poquísimos, que conozcan a una mujer amante y decente. De cada cien, noventa y nueve son puercas.” Más divertido y negrísimo es el humor de un pasaje en que comenta aquello de que un clavo saca a otro clavo: para las mujeres el asunto es muy simple, dice, pues les basta con cambiarse de clavo, pero los hombres están condenados a tener un solo clavo. No sé si hay humor, en cambio, en estas frases: “Las putas trabajan a sueldo. ¿Pero qué mujer se entrega sin haberlo calculado?” El siguiente chiste, en todo caso, me parece muy bueno: “Las mujeres son un pueblo enemigo, como el pueblo alemán.”

Es cierto que cometo una injusticia al presentar a Pavese como un precursor de la stand up comedy, pero denigrarlo es seguir el juego que él mismo propuso. Otro libro breve o no tan breve que podría extraerse de El oficio de vivir es el de la ya mencionada autoflagelación literaria. Al comienzo duda, razonablemente, de su escritura: se queja de su idioma, de su mundo, de su lugar en la sociedad, se retracta de sus poemas, quiere escribirlos de nuevo o no haberlos escrito. Desea experimentar el placer de negarse, de partir, siempre, desde cero: “He simplificado el mundo en una trivial galería de gestos de fuerza y de placer. En esas páginas está el espectáculo de la vida, no la vida. Hay que empezarlo todo de nuevo.” La observación no es casual, porque contiene una ética: el artista es siempre un eterno amateur, sus triunfos amenazan el progreso de la obra. Pero se queja tanto que escucharlo a veces se vuelve insoportable. Poco después de los lamentos iniciales, Pavese ha construido una obra inmensa que le da satisfacciones reales, que le permite ser alguien muy parecido a quien siempre quiso ser. Pero ahora se queja lo mismo y un poco más: “Estás consagrado por los grandes maestros de ceremonias. Te dicen: tienes cuarenta años y ya lo has logrado, eres el mejor de tu generación, pasarás a la historia, eres extraño y auténtico... ¿Soñabas otra cosa a los veinte años?” La respuesta es, en cierto modo, conmovedora: “No quería sólo esto. Quería continuar, ir más allá, comerme a otra generación, volverme perenne como una colina.”

Pavese era un buen amigo, dice Natalia Ginzburg, pues la amistad se le daba sin complicaciones, naturalmente: “Tenía un modo avaro y cauto de estrechar la mano al saludar: daba pocos dedos y los retiraba enseguida; tenía un modo arisco y parsimonioso de sacar el tabaco de la bolsa y llenar la pipa; y tenía un modo brusco y repentino de regalarnos dinero, si sabía que nos hacía falta, un modo tan brusco y repentino que nos dejaba boquiabiertos.” En un fragmento de Léxico familiar y en un breve y bellísimo ensayo de ese libro breve y bellísimo que se llama Las pequeñas virtudes, Natalia Ginzburg evoca los años en que ella y su primer marido trabajaron con Pavese en Einaudi, tiempos difíciles a los que el poeta se integra trabajosamente: “Algunas veces estaba muy triste, pero durante mucho tiempo nosotros pensamos que se curaría de esa tristeza cuando se decidiera a hacerse adulto, porque la suya nos parecía una tristeza como de muchacho, la melancolía voluptuosa y despistada del muchacho que todavía no tiene los pies sobre la tierra y se mueve en el mundo árido y solitario de los sueños.”

“Pavese cometía errores más graves que los nuestros, porque los nuestros se debían a la impulsividad, a la imprudencia, a la estupidez y al candor, en cambio los suyos nacían de la prudencia, de la sagacidad, del cálculo y de la inteligencia”, agrega Natalia Ginzburg, y luego señala que la virtud principal de Pavese como amigo era la ironía, pero que a la hora de escribir y a la hora de amar enfermaba, súbitamente, de seriedad. La observación es decisiva y, a decir verdad, ha sobrevolado con persistencia mi relectura de Pavese: “A veces, cuando ahora pienso en él, su ironía es lo que más recuerdo y lloro, porque ya no existe: de ella no queda ningún rastro en sus libros, y sólo es posible hallarla en el relámpago de aquella maligna sonrisa suya.” Decir de un amigo que en sus libros no hay ironía es decir bastante. En las páginas de El oficio de vivir, en efecto, por largos pasajes el humor se limita a inyecciones de sarcasmo o a meros manotazos de inocencia.

“Mi creciente antipatía por Natalia Ginzburg”, anota Pavese en 1946, “se debe al hecho de que toma por granted, con una espontaneidad también granted, demasiadas cosas de la naturaleza y de la vida. Tiene siempre el corazón en la mano –el parto, el monstruo, las viejecitas. Desde que Benedetto Rognetta ha descubierto que es sincera y primitiva, ya no hay manera de vivir.” La amistad admite estos matices, y a su manera tajante y delicada la escritora responde: “Nos dábamos perfecta cuenta de las absurdas y tortuosas complicaciones de pensamiento en que aprisionaba su alma sencilla, y habríamos querido enseñarle algunas cosas, enseñarle a vivir de un modo más elemental y respirable; pero nunca hubo manera de enseñarle nada, porque cuando intentábamos exponerle nuestras razones, levantaba una mano y decía que él ya lo sabía todo.” Debo decir que me quedo con la sincera y primitiva y no con el sabelotodo. Porque sin duda Pavese era un sabelotodo. Por eso mismo su soliloquio se vuelve enojoso. Lo que mejor sabía era, en todo caso, que sufría inmensamente: “Es quizás ésta mi verdadera cualidad (no el ingenio, no la bondad, no nada): estar encenagado por un sentimiento que no me deja célula del cuerpo sana.” Acaso estaba secretamente de acuerdo con su amiga Natalia. Pienso en este fragmento del diario, que tal vez da la clave del sufrimiento de Pavese: “Quien no sabe vivir con caridad y abrazar el dolor de los demás, es castigado sintiendo con violencia intolerable el propio. El dolor sólo puede ser acogido elevándolo a suerte común y compadeciendo a los otros que sufren.”

Algo va mal en este artículo. Mi intención era recordar a un escritor que admiro, y ya se ve que la admiración ha amainado. Lo comento con una amiga, por teléfono, a quien no le gusta y nunca le ha gustado Pavese. Tal vez la primera vez que leíste El oficio de vivir, me dice, querías suicidarte. Todos los estudiantes de literatura quieren suicidarse, dice, y yo me río pero enseguida respondo, con pavesiana seriedad, que no, que nunca quise suicidarme. Tal vez entonces, a los veinte años, me impresionaba la forma de expresar el malestar; la descripción precisa de un dolor que parecía enorme y que sin embargo no rivalizaba con la posibilidad de plasmarlo. Es curioso, pienso ahora: Pavese lucha con el lenguaje, construye un italiano propio o nuevo, valida las palabras de la tribu y los problemas de su tiempo. No se adhiere a fórmulas, desconfía de las proclamas, de los falsos atavismos. Es, en un punto, el escritor perfecto. Pero en otro sentido es un pobre hombre que anhela exhibir su pequeña herida. Me pregunto si era necesario saber tanto sobre Pavese. Me pregunto si verdaderamente a alguien le importa saber sobre su impotencia, su eyaculación precoz, sus masturbaciones. No lo creo.

Pavese solía releer su diario para echar tierra sobre alguna observación apresurada o, más frecuentemente, para enfatizar una intensidad que ya era alta. Las numerosas referencias internas y el uso de la segunda persona constituyen la retórica de El oficio de vivir. La segunda persona reprende, humilla, pero a veces también infunde ánimo: “Ten valor, Pavese, ten valor.” El efecto, en todo caso, nunca me parece esencial: cualquiera de esos fragmentos funcionaría mejor en primera persona. Más que una complejidad del yo, la segunda persona comunica la dificultad del desdoblamiento y suena siempre tremendista: “También has conseguido el don de la fecundidad. Eres dueño de ti mismo, de tu destino. Eres célebre como quien no trata de serlo. Pero todo esto se acabará.” Hay pedazos, sin embargo, notables: “Recuerdas mejor las voces que las caras de las personas. Porque la voz tiene algo de tangencial, de no recogido. Dada la cara, no piensas en la voz. Dada la voz –que no es nada– tiendes a hacer de ella una persona y buscas una cara.”

Releí El oficio de vivir, pues había comprometido un reportaje sobre Santo Stefano Belbo, el pueblo natal del escritor, con la excusa del centenario de su nacimiento. Alguien criado en el país de Neruda no debería hacer este tipo de viajes: crecimos en el culto al poeta feliz, crecimos con la idea de que un poeta soltaba sus metáforas a la menor provocación, que acumulaba casas y mujeres y dedicaba la vida a decorarlas (las casas y a las mujeres). Crecimos pensando que los poetas coleccionaban –además de casas y de mujeres– mascarones de proa y botellas de Chivas de cinco litros. Para nosotros el turismo literario es cosa de gringos, de japoneses que adoran el dinero que han pagado para maravillarse con historias asombrosas. Por fortuna, nada de eso hay en Santo Stefano Belbo, un pueblo de cuatro mil tranquilos habitantes, que vive de las viñas y goza de una estabilidad muy parecida al aburrimiento.

Así como repasar el diario de Pavese ha sido decepcionante, visitar el pueblo que sirve de escenario a La luna y las fogatas constituye una emoción compleja. Pavese interrogó este paisaje con preguntas verdaderas, movido por el vértigo de quien busca recuerdos en los recuerdos. Walter Benjamin lo dice con precisión, cuando habla, en un texto sobre Proust, de la “legalidad” del recuerdo. Es este el paisaje que recordaba Pavese cuando invocaba esa “legalidad”: el valle, la colina, la iglesia, las ruinas de una torre medieval; un verde apacible queda en los ojos y todo parece caber en una sola mirada larga. Encuadro la imagen para situar el río Belbo y el camino a Canelli, que en La luna y las fogatas es el camino donde empieza el mundo. De puro diletante planeo alojarme en el Albergo dell’Angelo, donde se hospeda el narrador en la novela, pero el recinto ya no funciona como hotel, por lo que me quedo en un razonable bed & breakfast. Reconozco el terreno mientras pienso en versos de “Los mares del Sur” y en el poema “Agonía”, que no es el mejor de Pavese pero sí el que más me gusta: “Están lejos las mañanas cuando tenía veinte años./ Ahora, veintiuno: ahora saldré a la calle,/ recuerdo cada piedra y las estrías del cielo.” Mientras camino recupero a Pavese: “Nos hace falta un país, aunque sólo sea por el placer de abandonarlo”, digo, de memoria: “Un país quiere decir no estar solos, saber que en la gente, en las plantas, en la tierra hay algo tuyo, que aun cuando no estés te sigue esperando.”

Ya me gusta, de nuevo, Pavese.[...]


Alejandro Zambra

— Letras Libres